lunedì 23 novembre 2009

Blog in prestito - Marco a NY - 1

Come accennavo nel post precedente, a forza di sentire racconti e richieste da parte di amici, parenti e conoscenti se avevo corso la Maratona di New York, ho deciso di dare spazio ad un amico. Marco, reduce dalla gara di quest'anno, ha scritto un lungo resoconto della sua corsa e mi fa molto piacere pubblicare il suo racconto.
Nel mandarmelo si è giustificato rispetto all'enfasi di alcuni passaggi scritti sotto gli effetti della botta adrenalinica dei giorni successivi. Le sensazioni sono difficili da riportare sulla carta e penso che abbia fatto un ottimo lavoro, sicuramente apprezzabile da chi le maratone le corre veramente e ha così l'occasione di vivere o rivivere una gara diversa da tutte le altre .

Questa è la prima parte.

La mia ING NEW YORK CITY MARATHON 2009

Una notte agitata. Come tutte le notti prima di un grande evento. Continuo a rigirarmi nel letto. Ogni tanto apro gli occhi per controllare quanto manca alla sveglia. Sempre a pensare se abbia preparato tutto. Sempre a controllare se i dolori alle gambe, che mi hanno accompagnato per questi mesi, stiano migliorando. Brandelli di sonno prima del fatidico suono. E poi, finalmente, arriva l’ ora di alzarsi . E’ il grande giorno, E’ ora di andare a correre la maratona di New York.

Sono le 4,30 del mattino. Mi vesto quasi in trance controllando e ricontrollando le scarpe, i lacci, il chip se è attaccato bene, il pettorale, la borsa del cambio da mandare all’arrivo, le malto destrine.

Un caffè bollente, fette di pane tostato e marmellata, poco latte e ancora caffè. Sono pronto.

Mi sento come un guerriero prima della grande battaglia. Saluto mia moglie che mi segue come un’ombra negli ultimi preparativi e poi mi raccomanda, un po’ preoccupata, di non esagerare, di evitare l’infarto!! Esco per strada quando è ancora buio pesto. Non fa freddo. Una pioggia fina fina che quasi non bagna. New York è già popolatissima a quest’ora. Vado verso la subway. Quest’anno niente taxi o pullman di lusso per raggiungere la partenza. Uso i mezzi pubblici come tutti gli americani. Ora non sono più solo. Nella metro, ad ogni fermata, continuano a salire maratoneti di tutti i paesi, di tutte le età, ognuno con il proprio sacchetto UPS a tracolla con il cambio del dopo gara. Visi assonnati, sguardi fissi, concentrati, eccitati, nervosi, quasi scavati.. Nessuno riesce a stare fermo. Qualche fermata ancora e finalmente torno in superficie, all’attracco dei ferry boats per “Staten Island”. Mi immergo in un fiume di persone, tutte con la stessa meta, mi lascio trascinare senza fretta verso il traghetto. Lentamente, ordinatamente, il flusso viene convogliato sul ferry appena arrivato. Parte alle 6,30. Seduto, guardo l’orizzonte che da plumbeo diventa leggermente rosato. E’ l’alba. Ancora piove, ma quel chiarore lontano fa ben sperare. I grattacieli di Manhattan ancora illuminati che si allontanano, la statua della libertà, i gabbiani che planano sulla scia del traghetto e Staten Island che lentamente si avvicina. E’ ora di scendere. Ho un nodo allo stomaco. Non capisco se sia la tensione, la fame o se sia una esplicita protesta per il caffelatte della colazione. Il fiume dei runners si raccoglie di nuovo ordinato e viene convogliato e poi smistato sulle navette che ci aspettano in fila fuori del porto e subito dopo ci trasportano a “Fort Wadsworth”.

Scesi dalla navetta, l’attesa per entrare nel forte è lunga, ma dopo quasi un’ora in fila indiana, controllo borse e controllo pettorali riusciamo ad entrare seguendo le indicazioni per le varie aree: la blu, la verde, quella arancione, a seconda del proprio pettorale. La mia è quella blu. Trovo Dario, Lino, Sergio, Cristina. Sono tutti nervosi, eccitati, gasati. Un rapido scambio di impressioni, di sensazioni, di paure, di speranze per questa giornata, per la nostra prova. Fort Wadsworth è affollatissimo, sembra un grande accampamento prima della battaglia. C’è chi ha già iniziato il riscaldamento, chi fa stretching, chi si spalma pomate ed unguenti dagli odori penetranti, chi mangia, chi beve, chi dorme, chi chiacchiera o canta. Si recita anche la messa. La maggior parte dei runners fa la fila davanti ai bagni chimici: noi approfittiamo a più riprese di madre natura. Una voce diffusa da decine di altoparlanti ripete in continuazione, in varie lingue, le istruzioni e gli orari per la partenza. Poi ciascuno lascia il sacco con il proprio cambio ai furgoni UPS perché possano trasportarcelo al traguardo a Central Park. Io guardo per l’ultima volta il mio, mentre lo lascio al volontario che lo impila con centinaia di altri, chiedendomi se riuscirò a terminare la gara, ad arrivare all’arrivo e ritirarlo. Tra una battuta ed uno sfottò con Dario, con Lino, l’ora di entrare nella gabbia arriva all’improvviso. Ci salutiamo. Loro stanno ai primi cancelli, vicini ai “top runners con le scarpe da 150 gr.”. Io sto al “corral G”. Mi attardo un attimo per togliermi il sotto della tuta, per spalmarmi sulle gambe un pò dell’ olio all’arnica che mi ero portato e mi accosto alla mia gabbia. È già chiusa. E’ troppo tardi. Ho perso la mia onda delle 9,40 e devo partire con quella successiva delle 10,00. Mi sento morire. Supplico l’irremovibile volontaria di colore che, totalmente indifferente alle mie richieste, si allontana dall’entrata lasciando chiuso il cancello. Poi arriva un gruppetto di energumeni spagnoli fisici più da lottatori che da maratoneti - nella mia stessa situazione. Fanno la voce grossa, molto grossa, così grossa che la volontaria è costretta ad aprire il cancelletto ed a farli entrare. Mi intrufolo dietro di loro e sono dentro anch’io! Raggiungiamo velocemente quelli della nostra onda che sono già sulla linea di partenza. Il momento è solenne, emozionante, eccitante, travolgente. Uno speaker arringa la folla dei runners che scalpita, saltella, si agita nervosa prima dello sparo. Poi l’inno americano. La tensione è sempre più alta. Poi, finalmente, atteso, liberatorio, il colpo di cannone. La grande avventura comincia. Gli altoparlanti sparano ad un volume incredibile la voce di Frank Sinatra che canta “New York, New York”. Brividi di emozione sulla pelle. I primi, i più forti aggrediscono il ponte ma noi neanche li vediamo. Poi, dapprima lentamente, poi sempre più rapidamente la marea dei maratoneti comincia a muoversi e, dopo un paio di minuti dallo sparo, anche io passo sotto la linea della partenza, faccio partire il Garmin e posso già correre agevolmente.

GO! MARCO! GO!. Il Verrazano Narrows Bridge, con le sue enormi campate, si tinge velocemente dei colori delle maglie, dei pantaloncini di tutti noi che inesorabilmente lo invadiamo. E’ uno spettacolo unico al mondo. E’ facile eccitarsi e frasi trascinare ad una velocità che non è la propria. Molti urlano e si sbracciano davanti alle telecamere.

Fine prima parte - continua.

1 commenti:

GIAN CARLO ha detto...

Frank Sinatra c'era pure quando la corsi io... wait for the race's story